Microracconto riflessivo sul senso delle persiane
La casa delle prozie aveva le persiane. Le tapparelle, ghigliottine dello spazio domestico, segmentano la luce dosandola con avarizia. Le persiane permettono più sfumature: l’entusiasmo improvviso, spalancate al mondo con un solo gesto, lo sguardo segreto di una presenza invisibile. Le finestre della casa delle prozie erano alte e grandi perché una volta si poteva largheggiare con lo spazio.
Nella mia camera, molto più mia di quella nella casa dove vivevo modernamente dotata di tapparelle, ascoltavo la sera e i suoi rumori, mi godevo quel porto franco, il fine settimana dalle prozie, a cui avevo diritto assoluto. La luna era più grande lì, come la casa e come la finestra, filtrava attraverso gli spiragli delle persiane.
Al buio, distesa sul letto, sopra la coperta, mi lasciavo zebrare da quel chiarore, con la sensazione di essere in bianco e nero come le foto della nonna da giovane. Fuori in strada passava qualcuno e non sapeva che io ero a righe di luna. Vagamente ricordavo qualcosa di proibito sulla troppa luna che con la sua luce ti fa diventare matta.
L’odore era quello delle lenzuola lavate col sapone di Marsiglia, delle caramelle che potevo mangiare senza regola, della sicurezza di un affetto senza regola come le caramelle. Solo in quella casa la luna mi poteva fare a strisce. Perché quella casa aveva le persiane. Da allora odio le tapparelle.